Ciao Amore, ciao: l'anarchico testamento musicale di Luigi Tenco
Pubblicato il 09 maggio 2022 da Ludovica Proietti
È il 26 gennaio 1967 e il giovane cantautore Luigi Tenco presenta al Festival di Sanremo il brano “Ciao amore, ciao”. Interpretato da molti come una struggente storia d’amore, si rivelerà presto una vera e propria denuncia sociale, che, affrontando il tema della migrazione interna dall’agricolo sud all’industrializzato nord, fotografa la disparità economico-sociale di un’Italia attraversata dal boom economico degli anni ’60, che aveva contribuito ad acuire un divario già molto profondo.
La canzone si fa protesta
L'impegno civile e politico di Tenco comincia molto prima del 1967. Sin da giovanissimo si era esposto su temi socialmente impegnati come i diritti delle donne, in merito ad aborto e divorzio, l’antimilitarismo e l’antiimperialismo, tanto che fu costretto ad adottare pseudonimi, tra cui Gigi Mai, Dick Ventuno e Gordon Cliff, dopo essere stato schedato dal SIFAR (Servizio Informazioni Forze Armate) come appartenente ad una sinistra considerata pericolosa, perché rivoluzionaria. Parte di questo temperamento emerse a contatto con altri artisti, come Fabrizio de André, Gino Paoli e Bruno Lauzi, che insieme fondarono la “scuola genovese", movimento culturale ed artistico formatosi proprio negli '60 che si proponeva di denunciare tematiche sociali attraverso un linguaggio crudo e diretto. Nasceva quindi un nuovo modello di cantautore che si rendeva portavoce del disagio sociale e che, utilizzando la propria arte, abbracciava e sosteneva gli ideali rivoluzionari delle nuove generazioni.
Il “miracolo italiano”
Gli anni successivi al Secondo conflitto mondiale videro l’Italia rialzarsi dalle sue stesse ceneri. Progressivamente l’industria e i servizi andarono ad assumere un ruolo centrale nell’economia del paese e il commercio si sviluppò principalmente intorno al cosiddetto triangolo industriale che vide primeggiare le città di Genova, Torino e Milano su tutte le altre. Il “miracolo italiano”, però, ebbe un costo altissimo: l’agricoltura, che per alcune regioni meridionali rappresentava ancora la prima fonte di sussistenza, divenne il fanalino di coda di una nazione che aveva raggiunto ormai il posto d'onore tra le sette potenze più industrializzate del mondo. Le migrazioni interne, prima dalle aree rurali verso le grandi città e poi dalle regioni arretrate verso quelle ricche ed industrializzate, divennero quindi un processo inevitabile che si trasformò presto in un fenomeno caratterizzante di quegli anni.
Un testo scomodo
Con il titolo evocativo di "Li vidi tornare", originariamente il
brano avrebbe dovuto raccontare il dramma e le devastazioni della guerra,
attraverso l'immagine di un bambino che, guardando dall'altura di una collina,
vede partire giovani soldati di cui faranno ritorno solamente i corpi esamini.
In un momento però in cui le giovani generazioni rivolgono l'attenzione oltreoceano e
manifestano contro la Guerra in Vietnam, sostenendo l’antimilitarismo e l’antiimperialismo ed eleggendo a nuova icona rivoluzionaria
la figura del leader nord-vietnamita Ho Chi Mihn, Tenco decide di rivolge lo sguardo alla sua Italia.
All’interno della canzone due sono i passaggi fondamentali con cui l’autore denuncia, da un lato, la precarietà in cui versava il Mezzogiorno, con i versi “e guardare ogni
giorno se piove o c’è il sole, per veder se domani si vive o si muore”, e, dall’altro,
le profonde disparità economico-sociali, attraverso le parole “Saltare cent'anni in un giorno solo, dai carri dei campi agli arei nei cieli”.
Il brano non piacque alla giuria di gara, che lo considerò eccessivamente
sfacciato, sopra le righe, non adatto al contesto del Festival. Venne quindi eliminato
e fu ripescata tra le canzoni scartate “La Rivoluzione” di Pettenati, che, a
dispetto del titolo, nulla aveva a che vedere con la ribellione o la rivolta.
La sera stessa Tenco si suicidò, lasciando il biglietto:
“[…] faccio tutto questo non perché stanco della vita (tutt’altro), ma come atto di protesta per un pubblico che manda “io, tu e le rose” in finale e per una commissione che seleziona “La Rivoluzione”. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi.”
Con questo gesto il cantautore tentò di smascherare l’ipocrisia che avvolgeva gli ambienti benpensanti e di aprire una riflessione su temi ormai fondamentali, che infatti diventeranno il centro tematico dei grandi movimenti del ’68 prima e del ’77 poi, ma purtroppo non fu così: il giorno dopo, fatta eccezione per i suoi amici, primo tra tutti De André, il mondo dello spettacolo tacque e la serata successiva del Festival si svolse senza far cenno a quanto accaduto.