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La Rivoluzione non si processa

Pubblicato il 30 maggio 2023 da Ludovica Proietti

Prima pagina La Repubblica

Sono le 9:02 di giovedì 16 marzo 1978 e un reparto di brigatisti, composto da Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari e Franco Bonisoli, apre il fuoco sulla scorta dell’Onorevole democristiano Aldo Moro tra via Fani e via Stresa. Nell’agguato muoiono tutti gli uomini della scorta al servizio del Presidente DC: Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci e Giulio Rivera e qualche ora dopo li seguirà anche Francesco Zizzi, mentre Aldo Moro viene sequestrato e caricato su una Fiat 132 blu. Dopo aver cambiato macchina, il Presidente verrà portato in quello che i brigatisti chiamarono “il carcere del popolo”: un appartamento in via Camillo Montalcini 8 dove resterà per altri lunghissimi 55 giorni.
Nemmeno un minuto dopo la sparatoria, una chiamata anonima informa il 113 dell’accaduto e, arrivata sul posto, la pattuglia chiese di “inviare subito autoambulanze, sono la scorta di Moro e hanno sequestrato l’Onorevole”.
Il giorno dell’agguato non fu una scelta casuale. Alle ore 10:00 era previsto il dibattito alla Camera dei deputati e il voto di fiducia al quarto governo Andreotti, che rappresentava una svolta epocale perché per la prima volta dal 1947 il governo vedeva l’appoggio esterno del Partito Comunista Italiano, guidato da Enrico Berlinguer.

Le Brigate Rosse

La politica italiana a quel tempo era di fatto dominata da due partiti, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, che insieme raggiungevano oltre il 70% dei voti dell’elettorato. Intorno ruotavano partiti minori, come il Partito Socialista guidato da Pietro Nenni, che tra il 1960 e il 1970 partecipò a diversi governi presieduti dalla DC. Per raggiungere quello che Berlinguer aveva definito ‘compromesso storico’ con il Partito dallo scudo crociato, il PC avrebbe dovuto rompere i legami con l’Unione Sovietica e reprimere, almeno momentaneamente, le idee più rivoluzionarie per abbracciarne altre più riformiste.

Questo cambio di rotta destò non poco malcontento negli ambienti più estremi del Partito che non si rassegnavano a veder sfumare il sogno rivoluzionario, mentre fuori dal PC molti movimenti di estrema sinistra rimanevano affascinati dall’esperienza oltreoceano della Cuba di Che Guevara e Fidel Castro. Alcuni giovani non trovano più nella sinistra italiana una guida, perdono fiducia nei sindacati, decidono che il tempo dei cortei e delle manifestazioni pacifiche è finito ed è arrivato quello della lotta armata: abbandonano tutto, fanno perdere le proprie tracce e si uniscono al neonato movimento anarchico extra-parlamentare delle Brigate Rosse. L’organizzazione viene fondata nella località di Pecorile, una frazione di Vezzano sul Crostolo a Reggio Emilia nel 1970 a seguito di un convegno a cui parteciparono militanti-delegati provenienti da diversi gruppi dell’estremismo anarchico di sinistra. Tra questi i principali furono il “gruppo reggiano” guidato da Alberto Franceschini, il gruppo dell’Università di Trento rappresentato da Margherita Cagol e Renato Curcio, ed infine il gruppo di operai e impiegati delle fabbriche milanesi Pirelli e Sit-Siemens, indirizzato dalla figura di Mario Moretti.
Le prime azioni terroristiche riguardarono le fabbriche, con attentati dimostrativi e sequestri di dirigenti industriali, ma non appena il movimento si consolida, l’ala militarista estremizza le forme dello scontro, reclutando interlocutori non più tra gli operai, ma tra i giovani e le studentesse. A questo punto non si rivolge più solamente a dirigenti aziendali o sindacalisti di fabbrica, ma sequestrano, gambizzano (termine coniato negli anni ‘70 proprio per indicare una delle modalità di attacco brigatista) ed uccidono avvocati, magistrati, carabinieri, poliziotti e giudici. Il movimento cresce, si organizza capillarmente e le sedi nelle varie città italiane prendono il nome di “colonne” come in un vero e proprio esercito e non di “sezioni” come per i partiti.
Due anni prima del rapimento Moro, nel 1976 viene organizzato a Torino il primo processo contro il nucleo storico delle BR, ma come processare un gruppo terroristico che non riconosce lo Stato e la sua impalcatura giudiziaria? Al grido “La Rivoluzione non si processa”, i brigatisti rifiutano di essere rappresentati e assistiti da un avvocato, obbligatorio però perché il processo possa essere avviato. Il tribunale incarica della difesa il Presidente dell’ordine degli avvocati di Torino, Fulvio Croce, ma cinque giorni prima della data di inizio del processo, il 28 aprile 1977, viene ucciso da cinque colpi di pistola da un commando brigatista. Dato il clima di terrore e violenza diffuso dalle BR, sopraggiunse presto un altro problema. I reati imputati ai terroristi sono così gravi che il processo dovrà essere svolto in Corte d’Assise alla presenza di una giuria popolare composta da sei membri. Nessuno però vuole prendere parte al processo, nessuno vuole giudicare i brigatisti perchè nessuno vuole essere ucciso, quindi per mesi si fatica a trovare sei avvocati in tutta Torino. Sarà Adelaide Aglietta, il 9 marzo 1978, la prima persona ad essere disposta a far parte della giuria, seguita poi da altri avvocati, grazie ai quali sarà possibile avviare il processo.
Pochi giorni prima del rapimento Moro, le BR rendono nota la loro posizione:

Questo è un processo di regime che ha l’obiettivo pretenzioso di processare e condannare la Rivoluzione comunista. Ma il processo alla Rivoluzione proletaria non è possibile. Ancora una volta la nostra strategia sarà quella del processo guerriglia.

Il giorno più lungo

Alle 10:10 Le Brigate Rosse rivendicano l’azione con una telefonata di Valerio Morucci all’ANSA:

Questa mattina abbiamo sequestrato il Presidente della Democrazia cristiana Moro ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato. Firmato, Brigate Rosse.

La notizia si diffonde rapidamente nel Paese, i negozi chiudono e gli studenti a scuola si riuniscono in assemblee per seguire la vicenda. Alle 10:30, i tre maggiori sindacati, Cgil Cisl e Uil, indicono uno sciopero dalle 11:00 a mezzanotte, mentre molti lavoratori annunciano scioperi spontanei. L’informazione monopolizza tutti i mezzi di comunicazione, dalla stampa alla radio e ovviamente la televisione, che da appena due anni viene trasmessa su due reti nazionali, Rai 1 e Rai 2. Alle ore 10 l’edizione speciale del Tg2, in diretta da Torino, si apre con la comunicazione di Giancarlo Santalmassi:

Buongiorno. Il Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro è stato oggetto di un gravissimo attentato. Secondo un primo flash d’agenzia delle 9:28 Aldo Moro è stato sequestrato.

L’edizione straordinaria del Gr1 delle 12:30 vide sintonizzati oltre cinque milioni di italiani, che per il telegiornale delle 13 raddoppiarono con oltre undici milioni di telespettatori, a dispetto del giorno precedente durante il quale a seguire lo stesso appuntamento televisivo erano stati poco più che 3 milioni di italiani. La violenza inaudita di quell’attentato entra rapidamente nelle case di tutti. Poco più di due ore dopo il sequestro, si riunì al Viminale il Comitato politico tecnico operativo per organizzare le ricerche dell’Onorevole guidato dall’allora Ministro dell’Interno Francesco Cossiga e alla presenza dei due sottosegretari dell’Interno e della Difesa e delle forze armate. Viene consegnato alla stampa un lungo elenco con i nomi dei brigatisti sospettati di essere coinvolti direttamente nell’agguato, mentre vengono organizzate perquisizioni capillari di presunti nascondigli. Alle 10:50 l’agenzia ANSA di Torino ricevette il messaggio del brigatista Walter Alasia con le richieste dei terroristi: la scarcerazione, entro 48 ore, dei loro compagni detenuti a Torino e di coloro che facevano parte di Azione Rivoluzionaria (gruppo armato anarchico nato in Toscana nel 1977) e dei NAP (Nuclei Armati Proletari, organizzazione terroristica nata nel 1974 e attiva soprattutto nel meridione), sottolineando che in caso contrario Moro sarebbe stato ucciso.

Il 18 marzo, mentre al Verano si celebrano i funerali degli uomini della scorta, con una telefonata anonima al quotidiano “Messaggero”, le BR fanno recapitare il comunicato numero 1 (di cui qui, solamente un estratto) insieme ad una istantanea del Presidente prigioniero, ma ancora in vita:

Giovedì 16 marzo 1978 un nucleo armato delle Brigate Rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo ALDO MORO, Presidente della Democrazia Cristiana. La sua scorta armata, composta da cinque agenti dei famigerati Corpi Speciali, è stata completamente annientata. Chi è ALDO MORO è presto detto: dopo il suo degno compare De Gasperi, è stato fino ad oggi il gerarca più autorevole, il "teorico" e lo "stratega" indiscusso di quel regime democristiano che da trent’anni opprime il popolo italiano. […] È inutile elencare qui il numero infinito di volte che Moro è stato presidente del Consiglio o membro del Governo in ministeri chiave e le innumerevoli cariche che ha ricoperto nella direzione della DC, ci basta sottolineare come questo dimostri il ruolo di massima e diretta responsabilità da lui svolto nelle scelte politiche di fondo e nell'attuazione dei programmi controrivoluzionari voluti dalla borghesia imperialista. […] Da tempo le avanguardie comuniste hanno individuato nella DC il nemico più feroce del proletariato. […] Sia chiaro quindi che, con la cattura di Aldo Moro ed il processo al quale verrà sottoposto da un Tribunale del Popolo, non intendiamo "chiudere la partita" né tanto meno sbandierare un "simbolo", ma sviluppare una parola d’ordine su cui tutto il Movimento di Resistenza Offensivo si sta già misurando, renderlo più forte, più maturo, più incisivo e organizzato. Intendiamo mobilitare la più vasta e unitaria iniziativa armata per l'ulteriore crescita della GUERRA DI CLASSE PER IL COMUNISMO. […] UNIFICARE IL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO COSTRUENDO IL PARTITO COMUNISTA COMBATTENTE.
16/03/78
Per il comunismo
Brigate rosse.

Il giorno seguente, il 19 marzo, Papa Paolo VI, amico di lunghissima data di Moro, entra a far parte dei protagonisti fondamentali della vicenda, con il suo discorso durante il consueto Angelus della domenica:

Preghiamo per l’Onorevole Aldo Moro, a noi caro, sequestrato in un vile agguato, con un accorato appello affinché sia restituito ai suo cari.

La politica si divide

Il 29 marzo i brigatisti contattano Nicola Rana, il capo della segreteria politica di Moro, comunicando la presenza di sette fogli scritti dal Presidente destinati a sua moglie Eleonora, al Ministro degli Interni Cossiga e allo stesso Rana. I manoscritti scuotono una classe politica già in estrema difficoltà.
La maggioranza di essa è schierata sul fronte della fermezza, assolutamente contraria a qualsiasi tipo di apertura alla trattativa con i terroristi, a cominciare dal PC. Il segretario della Cgil, il comunista Luciano Lama, difronte ad una folla di oltre 200.000 militanti iscitti al PC riunita a piazza San Giovanni a Roma dirà:

Un pugno di terroristi provocatori non può avere ragione di un popolo di 56 milioni di cittadini coscienti. Non è possibile che questo accada. Il terrorismo alimenta nell’uomo comune sentimenti di repressione, l’invocazione a misure eccezionali. Forse molti di noi hanno sentito questi discorsi oggi stesso, nella propria casa o li hanno fatti essi stessi. Che lo Stato democratico si difenda con le leggi che ha, utilizzando gli uomini che ha.

Probabilmente Lama faceva riferimento anche ad una parte dello schieramento politico, composto principlamente dal Movimento Sociale italiano di Giorgio Almirante e dal Partito Repubblicano di Ugo la Malfa, che abbracciò l’ipotesi di ripristino della pena di morte per i brigatisti. Anche la DC sposa la linea della fermezza, ma con fatica, perché Moro, Cossiga, Zaccagnini e Andreotti sono nel Partito da tantissimo tempo, sono colleghi e amici. Sarà a loro che Moro, in una delle 86 lettere scritte durante i 55 giorni di prigionia, proprio in virtù di questo profondo legame rivolgerà queste parole:

Naturalmente non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente ad una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata accettando anche lo scambio dei prigionieri. Sono convinto che sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momento supremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse? Bisognerebbe dire a Giovanni (Giovanni Leone, Presidente della Repubblica al tempo) che significa attività politica. […] E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro.

Ad avvicinarsi all’idea di una trattativa, entrando a far parte del fronte possibilista, saranno invece il Partito Radicale, sin da subito, e, con qualche esitazione, il Partito Socialista di Bettino Craxi, che il 2 aprile durante il 41° Congresso del Partito pronuncerà:

se dovesse affiorare un margine ragionevole di trattativa, questo non dovrebbe essere distrutto pregiudizievolmente.

Nonostante questo, il socialista Sandro Pertini, che non concordava con la linea scelta dal Partito, arrivò ad affermare un lapidario

non voglio assistere ai funerali di Moro, ma nemmeno a quello della Repubblica.

La considerazione alla base del fronte della fermezza, infatti, era quella che venire a patti con i brigatisti o accettare le loro richieste per la scarcerazione di Moro significava affermare la resa dello Stato e la rinuncia alle sue leggi, aprendo inoltre un precedente per eventuali altri sequestri. L’ipotesi di un pagamento per il riscatto del prigioniero venne sondata, ma con molte perplessità: come avrebbero impiegato i soldi ottenuti i brigatisti? Il 12 gennaio 1977 a Genova le BR rapirono Pietro Costa, membro della storica famiglia proprietaria della Costa Crociere. Rimase prigioniero per 81 giorni, dopo i quali, a seguito del riscatto, venne rilasciato con in tasca l’opuscolo che rivendicava l’azione da parte delle Brigate Rosse. Mario Moretti commentò così la vicenda:

Il denaro ottenuto attraverso il sequestro Costa sarà diviso tra le vari colonne, investito nell’acquisto di case e armi e consentirà di sostenere i costi legati all’organizzazione di azioni armate.

Fu proprio con questi soldi che la brigatista Anna Laura Braghetti acquistò nel 1977 l’appartamento in via Camillo Montalcini 8, vicino Villa Bonelli, nel quartiere Portuense di Roma, dove Moro trascorse la sua prigionia.